Perché alcune persone si pentono della transizione?

Articolo di: Silvia Selviero

Proprio così, per farmi perdonare per la mia lunga assenza voglio prendere questo argomento, sperando che ne venga fuori un articolo istruttivo e interessante quanto basta.
Ora, malgrado sia problematico e in un certo senso “scomodo” ammetterlo per chi come me lotta perché le persone transessuali non vengano più considerate “anormali” e “pericolose” sulla base di speculazioni azzardate e miti da sfatare, perché ci sia un’informazione accurata, veritiera e più diffusa sulla transessualità e perché parte – se non molta – della transfobia di cui la nostra società è intrisa scompaia, esistono persone che hanno deciso di intraprendere il percorso di transizione e durante o dopo (solitamente verso la fine) hanno manifestato rimorsi, pentimento, panico, dolore, insoddisfazione, infelicità, voglia di tornare indietro, arrivando in alcuni casi a denunciare chi le ha aiutate o a gesti estremi contro se stesse.
Naturalmente l’opinione pubblica transfoba non perde occasione di sfruttare queste tragedie per avvalorare una delle sue brillantissime tesi (che sintetizzerò di seguito): 

Guardate quanto sono malati e deviati i trans! Guardate quanto hanno bisogno di tornare normali! Vedete che quando li operate poi si ammazzano? Vedete che hanno problemi seri? Tutto questo buonismo del cazzo non serve! Non li dovete assecondare, li dovete curare! La transizione non serve!”.
E invece, a dispetto di quello che sostengono loro, la transizione serve. Sapere che ogni mese da quando hai iniziato la TOS hai un secondo compleanno, che ogni mese un altro pezzo di chi sei veramente sta venendo fuori, che a mano a mano che il tempo passa tu cambi, ti migliori, ti reinventi, ti scopri, che stai cominciando a capire chi è la persona allo specchio, che in alcuni casi stai cominciando a volerle bene, che sei sulla buona strada per smettere di esistere e iniziare a vivere, e che hai l’occasione unica di sapere cosa significa provare felicità anche solo perché fai parte della Terra… è quanto di più liberatorio, euforizzante, costruttivo ed edificante un essere umano possa provare. È un diritto sacrosanto che non va sminuito né ridicolizzato. Soprattutto da chi non conosce questa realtà e preferisce chiudere occhi, cuore e orecchie di fronte a chi ne parla, chi ha paura e si rifugia nella sua ignoranza e nei luoghi comuni senza metterli mai in discussione, e chi non ne sa abbastanza per permettersi di dire la sua ma di fronte a una notizia del genere vede come confermati i suoi preconcetti.
Ho empatia per chi non è riuscit* a trovare se stess* alla fine della transizione e ha cercato di tornare indietro, come potrei avere empatia per qualsiasi esploratrice o esploratore che mentre stava cercando di arrivare alla meta non è stat* abbastanza attent* (vuoi perché guidat* da persone incompetenti, vuoi perché è stat* incosciente di suo) ed è finit* in un burrone. Ma sono convinta con onestà che nella stragrande maggioranza dei casi il loro rimorso si sarebbe potuto evitare. Come? Su questo si basa il mio articolo.
E prima di iniziare a dissezionare le motivazioni per cui qualcun* si può pentire, devo ringraziare il sito Transgender Mental Health, che ha già dato alcune risposte alla questione Qui, ed è stato di vitale importanza per lo sviluppo del mio articolo.
Cominciamo!


Motivazione 1: Forse la persona in questione non era davvero transessuale.Magari andando avanti ha capito che vivere secondo la prospettiva dell’altro genere non era quello che voleva, perché si sentiva più a suo agio a vivere nel genere che le avevano assegnato alla nascita e il disagio che provava verso il suo corpo non era così profondo da volerlo cambiare ma solo una momentanea (per quanto dolorosa) crisi psicologica, perché pur essendo cissessuale non si riconosceva negli stereotipi di genere e ha scambiato il suo rifiuto per un ruolo che le era stato imposto da altri con un rifiuto della sua identità di genere, perché era una persona genderfluid (ossia qualcuno che rifiuta gli stereotipi maschile-femminile e sente di non appartenere del tutto a nessuna delle due categorie), perché era una persona bigender (ossia qualcuno che a dispetto del suo sesso sente dentro di sé una parte maschile e una parte femminile, e che entrambe vadano sfogate senza reprimerle) che solo per un periodo ha sentito forte l’esigenza di far parte del genere verso cui stava andando, perché era omosessuale e a causa di tutta la confusione che si fa comunemente tra omosessualità e transessualità ha creduto che innamorarsi ed essere attratta da altre donne/innamorarsi ed essere attratto da altri uomini dovesse essere una prerogativa riservata solo al sesso opposto al suo.
In altri Paesi rispetto all’Italia, quelli che hanno adottato il protocollo
WPATH, il Real Life Test (ossia un periodo in cui la persona in transizione vive con i documenti difformi al suo nuovo aspetto per accertarsi che completarla sia il suo vero desiderio) può aiutare a “far tornare sui suoi passi” chi non è transessuale prima che decida eventualmente di fare gli interventi chirurgici. E anche se in Italia c’è il protocollo ONIG, con tutte le scartoffie e la burocrazia e i tempi di attesa si può avere comunque un risultato del genere – senza contare che con tutta la terapia e il supporto psicologico che vengono fatti all’inizio l’argomento viene sviscerato così approfonditamente che ci sono buone probabilità di fermarsi anche prima della terapia ormonale sostitutiva.
Ma essere a conoscenza della differenza tra orientamento sessuale e identità di genere, o delle infinite sfumature che esistono tra cissessuali e transessuali, così come avere una certa predisposizione a porsi delle domande e ad indagare sulla propria natura profonda, sui propri desideri, sui propri bisogni, su come i propri bisogni e desideri possano entrare in conflitto, sulla propria definizione di cosa sia la virilità o la femminilità e su cosa sarebbe stato irrinunciabile per il proprio benessere psicofisico avrebbe senz’altro aiutato la persona a capire se stessa prima di lanciarsi in qualcosa che non faceva per lei. È impossibile pensare che il percorso di transizione sia valido per tutti/che tutti debbano farlo per stare bene, anche se gli ignoranti terrorizzati dalla cosiddetta ideologia del gender credono che sia quello che le persone transessuali vogliano.
Non solo fa del male a chi ha attuato cambiamenti irreversibili sul proprio corpo, fa del male anche a chi è veramente sicur* e deve fare i conti con i transfobi di cui sopra e con le loro brillantissime tesi su quanto chiunque non sia etero e cissessuale sia inferiore.

Motivazione 2: Forse la persona in questione era davvero transessuale, ma ha scambiato il percorso di transizione per un mezzo con cui risolvere magicamente tutti i suoi problemi.Ogni tanto, chi convive per anni con una disforia di genere profonda, con frustrazioni a livello sociale e psicologico, ha una tendenza umanissima e comprensibile: consegnarsi spontaneamente nelle “mani” della transizione con l’idea che cominciandola abbia già raggiunto il suo traguardo. Ogni tanto è così pien* di fiducia che crede che il percorso di transizione l* trasformerà in una persona migliore a prescindere. Può credere che finalmente farà parte di una comunità più ampia, che i suoi rapporti sociali diventeranno ottimi, che diventerà popolare, che riuscirà ad avere una nuova connessione col genere umano. Ma purtroppo, e qualsiasi persona in transizione che l’abbia vissuta bene e che non si sia pentita affatto della scelta ve lo potrà confermare, pensare una cosa del genere sul percorso è sbagliata.
Il percorso non è una bacchetta magica.
Il percorso non è solo una combinazione di sedute con gli psicologi, perizie, sentenze, ormoni, effetti degli ormoni, interventi chirurgici e rettifica anagrafica.
Il percorso, da solo, non serve.
Ogni essere umano è unico e irripetibile, e non può essere ricondotto solo alla sua identità di genere; per questo ogni persona transessuale è diversa, nelle sue convinzioni, nella sua personalità, nei suoi obiettivi di vita, nelle sue aspirazioni, nei suoi difetti, nelle sue qualità e nella sua visione delle cose. E quando siamo inseriti in un contesto sociale e culturale, naturalmente, le persone con cui veniamo in contatto e le esperienze che facciamo ci portano ad essere ancora più unici e irripetibili – così come ad avere debolezze e ferite soltanto nostre. Di conseguenza,
è impossibile pensare che ogni persona transessuale che farà il percorso di transizione sarà felice per le stesse cose nello stesso momento, e cosa ancora più importante, risolverà determinati problemi che la riguardano in quanto individuo solo grazie ad esso. Magari il percorso di transizione era davvero la strada giusta da prendere, ma altre cause di dolore e di problemi personali – assieme ad una mancanza di lavoro da parte della persona per superarli – hanno impedito che avesse un buon esito. Ecco perché è importantissimo che durante la transizione una ragazza MtF o un ragazzo FtM lavorino su di sé, che abbiano una transizione che non sia solo anatomica, e che vedano la transizione come un aiuto per stare meglio, e non una salvezza miracolosa che si può attendere passivamente. È importantissimo essere parte attiva nel percorso ed è importantissimo salvarsi da soli, è importantissimo continuare a conoscersi ed è importantissimo vedere il percorso come la strada che condurrà al traguardo, e non il traguardo di per sé.

Motivazione 3: Forse la persona in questione era davvero transessuale, ma alcune conseguenze della transizione l’hanno spinta a pentirsi.La vita post-transizione può essere molto dura per qualcun*, allo stesso modo in cui può essere più completa per altri. Esistono ragazze MtF e ragazzi FtM che non hanno preparato (o che credevano soltanto di aver preparato) sufficientemente i familiari, le persone con cui erano in coppia o gli amici a vederl* cambiare sesso e hanno dovuto fare i conti con reazioni di rifiuto, disgusto, recriminazioni, se non addirittura abbandoni che sono arrivati come un fulmine a ciel sereno, e nel loro dolore e nel loro essere a pezzi hanno incolpato la transizione. Esistono ragazze MtF e ragazzi FtM che hanno dovuto affrontare del mobbing sul posto di lavoro e hanno maledetto la scelta di essere liberi di poter diventare se stessi, invece di maledire un sistema che spesso fa dipendere le soddisfazioni personali e la carriera di chi è transessuale non dalle sue competenze individuali, ma da quanto saranno aperte mentalmente le persone con cui si troverà a lavorare. Esistono ragazze MtF e ragazzi FtM che hanno avuto dei risultati disastrosi dopo gli interventi chirurgici, che non si sono ripresi dal punto di vista fisico o che hanno avuto complicanze psicologiche. Esistono ragazze MtF e ragazzi FtM che per svariate motivazioni non hanno calcolato che riallineando il corpo con lo spirito avrebbero dovuto farsi sterilizzare e rinunciare all’idea di avere un figlio biologico, o che avrebbero dovuto per forza rinunciare a determinati privilegi che avevano quando vivevano confinati nel loro sesso (a causa di tutte le persone che utilizzano due pesi e due misure quando si tratta di uomini e di donne), e non riescono ad accettare queste rinunce. Esistono ragazze MtF e ragazzi FtM che nonostante abbiano completato il percorso e non abbiano avuto danni ne hanno quando si accorgono che non riescono a “passare” come desideravano, che la gente bigotta e ignorante collega il loro valore come individui a quanto sono femminili o virili secondo gli stereotipi, che capiscono di essere una minoranza discriminata con una chiarezza che prima non possedevano e che li colpisce all’improvviso con tutta la violenza del caso.
Ma tranne in alcuni casi il discorso che ho preso io, secondo me, è ancora valido. A costo di essere politicamente scorretta e di far indispettire attivisti come Janet Mock, sono convinta che essere persone transessuali in un mondo dove l’opinione pubblica la considera un’aberrazione sia una dimostrazione di coraggio, di autodeterminazione, di resistenza e di volontà enormi. Enormi. Vi rimando a “Quattro cose meravigliose dell’essere un ragazzo FtM” senza colpo ferire se non credete che ci siano dei vantaggi e delle motivazioni di orgoglio.
Quindi adesso lasciatemi inforcare gli occhiali, usare una parrucca da giudice che si vede nei film americani e raddrizzare la schiena, così posso farvi una domanda fondamentale.
Quante persone, dopo aver avuto una presa di coscienza forte e incancellabile, dal momento che, citando la Costituzione Italiana, “obbediscono a una esigenza incoercibile alla cui soddisfazione sono spinte dal loro naturale modo di essere”, sono disposte a riappropriarsi di se stesse a prezzo di qualsiasi sacrificio?
Ossia: quali sono le persone che sono più inclini a completare il percorso di transizione e a non pentirsi della loro scelta – che in realtà è semplicemente una scelta di vivere?
Quelle che si prendono il tempo di riflettere e rispondono a domande del genere. Quelle che non considerano una perdita di tempo informarsi, leggere, studiare, dialogare per conoscere se stesse e trovare il loro posto nel mondo LGBT – così come nel mondo in generale. Quelle che non bruciano le tappe e sanno distinguere una voglia del momento da un impulso che parte dal profondo dell’anima. Quelle che non partono in quarta a darsi definizioni ed etichette, e si preoccupano di capire e analizzare prima le loro sensazioni, i loro sentimenti e i loro pensieri. Quelle che chiedono direttamente a se stesse dove vogliono arrivare. Quelle che una volta compreso dove vogliono arrivare si mettono in macchina e costi quel che costi fanno del loro meglio per riuscirci. Quelle che non si fermano alle definizioni superficiali e non credono che per essere persone transessuali “vere” si debbano comportare in un determinato modo, anche quando quel determinato modo non gli è congeniale. Quelle che non si sentono mutilate dal percorso di transizione. Quelle che non cercano di mutilarsi per essere “idonee” al percorso di transizione. Quelle che prima di lanciarsi nel percorso di transizione non negano a se stesse i rischi che potrebbero correre, si fermano un attimo e si chiedono qual è la cosa più importante, quella che le renderebbe davvero felici. Quelle che non si accontentano della definizione che gli altri danno alla parola “normale” e cercano di trovarci il significato che è autentico per loro. Quelle che riflettono abbastanza attentamente da conoscere la differenza tra una vita più comoda e una vita più felice. Quelle che capiscono quali sono le rinunce a cui saranno portate, ma si dicono che ognuna di esse vale la pena. Quelle che vogliono vagliare la realtà, sviscerare la realtà, argomentare, trovare la forza di affrontare le loro paure, lottare per se stesse e per i propri diritti, andare oltre il comune modo di pensare, senza rinnegarlo, ma senza lasciarsi attribuire pensieri, desideri, vergogne e ambizioni da altri, e immergersi in se stesse fino ad arrivare al centro delle cose.
E una volta arrivate al centro delle cose, non ci sarà nessun individuo e nessun articolo che potrà far cambiare loro idea… neppure il mio.
Post scriptum per tutti gli ignoranti con brillantissime tesi di cui discutevamo sopra: a differenza di quanto “si sente al telegiornale” o riportano i giornali, i casi di persone che hanno intrapreso la transizione e si pentono sono molto pochi.
  • Secondo “Sex Reassignment: 30 Years of International Follow-up Studies after SRS: A Comprehensive Review”, pubblicazione online del ’92 di F. Pfafflin e A. Junge, che ha analizzato 70 studi precedentemente condotti sulle opinioni di 2000 individui che avevano fatto il percorso di riassegnazione chirurgica del sesso dal 1961 al 1991, il 70% delle MtF intervistate si era dichiarato soddisfatto, e il 90% degli FtM pure.
  • Secondo “Male-to-female transsexualism: a technique, results and long-term follow-up”, pubblicato nel 2001 e scritto da S. Krege, A. Bex e G. Lummen, che ha seguito 66 pazienti MtF, nessuna delle intervistate ha dimostrato pentimento. Infatti, lo studio mostra rimorsi minimi o nulli, principalmente in relazione ai risultati degli interventi di chirurgia estetica.
Di conseguenza, consiglio anche a voi di andare a studiare.

Commenti

  1. Anche io conosco sulla mia pelle la disforia di identita di genere,e a quasi 50anni,non cela faccio più fa andare avanti.nne una scelta,e Cmq non posso dire di nn aver paura di tutto il percorso,gli ormoni e quant'altro.credo sia una condizione maledetta,se non avessi avuto questo problema,la mia vita sarebbe stata una passeggiata

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  2. Dopo aver letto l'articolo non ho ancora cambiato idea...Grazie.

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  3. Si può essere anche soddisfatte di se anche senza ricorrere al cambio del sesso.
    Io invece vorrei che i centri dove si ha il percorso di cambio di sesso, fornissero un documento, una tessera o qualsiasi cosa, che indicasse che la persona ha disforia di genere.
    E fosse riconoscito legalmente, rinnovabile periodicamente.
    Perché purtroppo, se non si ha i documenti in ordine, molte volte ,
    Forze dell'ordine, uffici pubblici, poste, Aci, motorizzazione, ecc.
    Non riescono a capirlo e fanno storie!
    Ecco, questo è l'unico inconveniente per me.
    Grazie dell'articolo
    Molto bello
    Cordialità
    Daniela

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    1. Ciao Daniela, quando si finisce il percorso psicologico viene rilasciata una relazione dove si attesta che la persona ha effettivamente il DIG (Disturbo Identità di Genere) con quel foglio si può iniziare con gli ormoni e iniziare le pratiche legali per poi operarsi. Con lo stesso foglio, in caso ti facciano problemi, puoi usarlo come documento per attestare che effettivamente sei transessuale.

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  4. sono una ex e ho iniziato la transizione a 46 anni in quanto il destino mi ha trattata male. nonostante tutto ,anche l'operazione del cambio di sesso andata male , sono dovuta rincorrere ad altri 2 interventi di vaginoplastica, sono serena ( non felice,sarebbe troppo ) di essere diventata finalmente donna anche esteticamente. mai pentita ma, orgogliosa di essere me stessa e non gli altri. i miei chirurghi macellai sono del policlinico paolo giaccone di palermo e si chiamano adriana cordova e giovanni zabbia che sono stati mandati a processo. ho un compagno favoloso. non sono mai stata un omosessuale . la differenza e molto pesante. chi si sente veramente donna ,non puo mai andare,essendo uomo con un altro uomo. oppure dire che e donna con un cazzo in mezzo alle gambe. la vagina e' della femmina e il cazzo del maschio . chi si tiene il pene sara' sempre un maschio perche mai sapra e capira il piacere sessuale e fisico nel ritrovarsi con una vagina.

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    1. Sarebbe riduttivo dire che una donna è tale solo perchè ha una vagina e un uomo è tale solo perchè ha il pene. Una donna MtF che non vuole privarsi del pene, secondo me, non è meno donna di una che si è fatta una vagina.

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  5. Voglio commentare con una semplice emoticon per mostrare quanto sia pregnante ed importante per me questo articolo!

    :')

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